di Lidia Caputo
Tra i volumi pubblicati dal Prof. Pierfranco Bruni, Il sottosuolo dei Demoni appare l’opera più completa ed illuminante per i significati e contenuti che caratterizzano la sua poliedrica cultura umanistica. A partire dall’introduzione all’opera, dal titolo “Filosofia e letteratura, vissuto antropologico”, l’autore dà prova della sua maestria nel delineare nitidamente gli influssi della filosofia nicciana sulle opere letterarie e sui vissuti antropologici di significativi esponenti della letteratura novecentesca, in primis del poeta-vate Gabriele d’Annunzio. L’intentio che sottende l’avvincente opera, composta da altri trentuno saggi, è quella di offrire al lettore una specola di osservazione ed una chiave interpretativa dei magmatici contenuti filosofici, antropologici e letterari che caratterizzano la contemporanea riflessione estetico-esistenziale. Essi spaziano dall’interpretazione del mito di Frazer a “Sud e magia” di Ernesto De Martino, dalla concezione dello sciamano di Cecilia Gatto Trocchi a “La curandera del mistero” in Carlos Castañeda, da “Il viaggio di Claude Lévi-Strauss” a Mircea Eliade e la “Nostalgia”, da “Fedeltà ed eresia” in Ida Magli al “Fuoco” in Pirandello e Pavese, dal “Divino” di Silvina Ocampo al “Sottosuolo dei Demoni” di Dostoevskij.
Nel suo vulcanico testo interdisciplinare, pervaso da un magico equilibrio compositivo, Pierfranco Bruni ha attualizzato l’aforisma di Emerson: “Per il poeta e il saggio tutte le cose sono amiche e benedette, ogni esperienza è utile, ogni giorno sacro, ogni uomo divino”. Il saggio dell’enciclopedico scrittore calabrese è un impareggiabile esempio di immersione nelle ancestrali sorgenti mitiche, psicanalitiche, oltre che filosofico-antropologiche della cultura universale, che si squaderna attraverso millenni di contatti e contaminazioni tra Oriente ed Occidente, tradizione orale e scritta, popolare e dotta. Come il “Così parlò Zarathustra” di Friedrich Nietzsche, questo è un libro per tutti e per nessuno, nel senso che occorre accostarsi ad esso con animo limpido, scevro da pregiudizi, aperto alla conoscenza dei significati supremi dell’esistenza e del cosmo. Bruni delinea sapientemente le coordinate filosofiche, estetico-letterarie e antropologiche di un processo mitopoietico che congiunge le origini della cultura mediterranea con la contemplazione, a partire dalla civiltà preellenica, del destino umano, della vita e della morte attraverso l’arte, la poesia e la musica. Le componenti mitiche, già presenti nei canti rapsodici degli aedi, organizzati poi nell’Epos, in primis quello omerico, costituiscono unitamente al culto dionisiaco e misterico, l’essenza della tragedia attica. Nel saggio introduttivo l’attenzione è calamita dalla potenza dionisiaca dell’incantamento che si riverbera, attraverso la nicciana Nascita della tragedia, sulla contemporanea letteratura italiana e in Gabriele d’Annunzio, il suo interprete più sublime. I temi della maschera, della morte e della sua trasfigurazione nel mito sono collegati alla profezia nicciana del Superuomo e alla sua volontà di potenza che raggiunge la sua massima espressione nella dimensione artistica. Tra gli autori italiani, che, oltre al poeta-vate, hanno incarnato maggiormente la concezione estetica nicciana, l’autore annovera Cardarelli, Saba, Savinio, Michelstaedter, Svevo, Pavese, Gozzano, Campana, Bontempelli, Onofri. In particolare quest’ultimo costituisce, a mio avviso, uno dei più fedeli seguaci delle teorie del grande pensatore tedesco. Come evidenzia anche Antonio Banfi, nel suo articolo del 1930, Arturo Onofri visto dai critici, questo poeta esprime la rinnovata esigenza di mutuare dall’arte antica l’obbiettività spirituale incarnata nel mito, coniugandola con l’affermazione della soggettività dell’estetismo contemporaneo. La scrittura di Onofri è metafisica nell’accezione nicciana, in quanto esprime l’elevarsi dell’io individuale all’io assoluto, come scopriamo nei suoi Discorsi di Buddha, nelle liriche influenzate dal Faust goethiano e dallo Zarathustra di Nietzsche. Anche Bruni, nell’excipit del suo saggio introduttivo, sottolinea che “Zarathustra stesso è la metafora di una letteratura che ha ancora bisogno di ritrovarsi negli orizzonti dell’apollineo e nel senso del dionisiaco”. Lo scrittore meridionale si occupa altresì del passaggio del mito dall’antropologia alla letteratura nel saggio su “James Frazer e il mito come immagine”. Il ramo d’oro di Frazer illustra come il mito abbia interagito con la fantasia lungo i percorsi della storia, creando intrecci che hanno raccontato la vita dei popoli attraverso le immagini simboliche e archetipiche. Quando ciò avviene la letteratura supera ogni forma di realismo o di descrittivismo. Come avverrà in seguito per Pavese, Frazer si ricollega a Giambattista Vico per comprendere il senso del sublime, giocando tra interpretazione simbolica e visione onirica. Ricorda Bruni che Cesare Pavese ha sempre avuto ne Il ramo d’oro il testo di riferimento per interpretare le analogie tra il significato di “selvaggio” in Occidente e di “primitivo” riferito all’Oriente. Il ramo d’oro è l’immagine simbolica di quella forza spirituale ed esistenziale che contraddistingue gli uomini primitivi, ma costituisce anche per i contemporanei una chiave ermeneutica per penetrare nella dimensione onirica e magica della vita umana.
La prospettiva simbolica e mitica s’irradia anche dalla riflessione antropologico-letteraria di Mircea Eliade sul tema del nostos ne La prova del labirinto,(Jaca Book, 1979), che Bruni analizza nel saggio “Mircea Eliade e la nostalgia”. “Tramite la nostalgia”, osserva Eliade, “ritrovo delle cose preziose, ho quindi il sentimento che non perdo niente, che niente va perduto”. Nei canti popolari, nelle letterature della diaspora, nei diari di viaggio in prosa e in versi degli scrittori albanesi contemporanei, rivive la pena della lontananza, la nostalgia della patria, la speranza del ritorno. Temi già presenti nelle forme archetipiche del mithos e della fiaba. Mircea Eliade sottolinea, in Immagini e simboli (Jaca Book, 1980), che “Ogni essere storico riassume in sé una grande parte dell’umanità prima della storia”, ma questo sentimento di continuità con il passato rimarrebbe sterile se non incontrasse il sapere archeologico, che esprime il valore del patrimonio materiale e spirituale di ogni civiltà. Nella storia dei popoli del Mediterraneo, nonché delle tradizioni sciamaniche diffuse in Oriente e in Africa, il Salento occupa un posto privilegiato, come evidenzia Bruni nel suo contributo a Sud e magia di Ernesto De Martino (Feltrinelli, Milano,1959). Lo studioso napoletano è stato il primo a individuare nella cultura popolare e contadina di Terra d’Otranto, celebrata ne La terra del rimorso, (Il Saggiatore, Milano, 1961), la sua matrice greca arcaica e nel tarantismo la sua dimensione dionisiaca e catartica. Da essa scaturisce il significato primordiale del nostro “essere nel mondo”, radicato nelle originarie forme rituali del canto e della danza, in cui la manifestazione del dolore è la condicio sine qua non per liberarsene: la guarigione fisica e spirituale rappresenta il traguardo finale del profondo malessere che attanaglia le popolazioni meridionali.