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Palermo non si può spiegare, si può solo vivere. E non è un caso che chi vi nasce, o chi vi trascorre un po’ di tempo, ne resti per sempre segnato.È come se, nel cuore della Sicilia, la politica si fosse mescolata al profumo di zagara, un misto di dolcezza e veleno che stordisce i sensi e acceca la ragione. E forse è proprio questa la bellezza di Palermo: il fatto che continui a sopravvivere, a resistere, nonostante tutto.
di Davide Romano
Palermo è la città dove l’assurdo non è una categoria filosofica, ma una condizione esistenziale.
Albert Camus avrebbe potuto scrivere Il mito di Sisifo passeggiando per i vicoli del Capo o seduto in un bar di piazza Politeama, osservando l’incessante fluire di una città che sembra eternamente impegnata a fare e disfare, costruire e distruggere, senza mai giungere a una conclusione. Palermo è, in fin dei conti, la perfetta incarnazione di quel “paradosso siciliano” che Leonardo Sciascia descriveva come “l’ossimoro che diventa carne”.
Palermo è una città che si muove, eppure è sempre ferma. Se qualcuno ti chiede indicazioni per arrivare al Teatro Massimo, non è improbabile che risponda: “Vai dritto e gira quando finisce il sole”. È una città dove il tempo è relativo, come avrebbe detto Einstein, e dove “il futuro è solo una vaga possibilità”, per citare Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Qui il tempo è sospeso, non nel modo magico che ispira i poeti, ma in un modo che confonde le vite quotidiane.
Una politica al profumo di zagara
Palermo è la città dove i politici locali sanno gestire l’assurdo come se fosse un’arte. Prendiamo ad esempio il celebre aforisma di Giulio Andreotti, secondo cui “il potere logora chi non ce l’ha”. Ecco, a Palermo, il potere non logora nessuno. O meglio, non logora chi sa adattarsi alla maestosa lentezza della città, al sistema di favori e di connivenze che rende tutto possibile, anche l’impossibile. È come se, nel cuore della Sicilia, la politica si fosse mescolata al profumo di zagara, un misto di dolcezza e veleno che stordisce i sensi e acceca la ragione.
In questa città dove la parola “corruzione” ha perso il suo stigma, Palermo rimane un laboratorio politico irripetibile, dove si afferma il contrario di ciò che si dice. Qui la “città del sole” di Tommaso Campanella è stata interpretata in modo letterale: non come un’utopia, ma come un luogo in cui tutto sembra ruotare intorno alla luce di una potenza che si perpetua attraverso il clientelismo. Come si può non ammirare l’arte con cui Palermo ha saputo rendere la democrazia una fiction partecipativa?
La bellezza che sfida il buonsenso
Ma sarebbe troppo facile ridurre Palermo solo alla sua politica. È una città di straordinaria bellezza, dove la cattedrale normanna sorge come una sfida alla logica stessa. È un edificio che sembra dire: “Sì, siamo sopravvissuti agli arabi, ai normanni, agli spagnoli, ai bombardamenti della guerra, ma non a noi stessi”. E forse è proprio questa la bellezza di Palermo: il fatto che continui a sopravvivere, a resistere, nonostante tutto. George Orwell scrisse che “vedere ciò che è di fronte al nostro naso richiede un grande sforzo”. A Palermo, questo sforzo è estremo: bisogna saper vedere la bellezza oltre il caos, la grandezza nell’abbandono.
Gli intellettuali hanno sempre avuto una relazione difficile con Palermo.
Sciascia, nato a Racalmuto, guardava alla città con quel misto di disincanto e ironia che solo un siciliano può comprendere. “A Palermo si può tutto, e il contrario di tutto,” avrebbe potuto scrivere, perché qui le regole esistono solo per essere ignorate. Eppure, nel momento stesso in cui tutto sembra crollare, Palermo riesce a risorgere dalle proprie ceneri, come una fenice stanca, forse, ma sempre determinata.
L’arte di arrangiarsi
Palermo è la città dove l’arte di arrangiarsi è elevata a sistema di vita. I siciliani hanno una straordinaria capacità di cavarsela in ogni situazione, ma non nel senso pratico che potrebbe suggerire un manuale di sopravvivenza. No, a Palermo si vive con una nonchalance che sfida ogni logica. “Facciamo domani quello che avremmo dovuto fare ieri” potrebbe essere il motto ufficioso della città. Jean-Paul Sartre avrebbe amato Palermo, non tanto per la sua bellezza, ma per la sua capacità di rendere l’assurdo parte della quotidianità.
In questo, Palermo rappresenta la quintessenza dell’esistenzialismo siciliano: vivere significa sopravvivere a un sistema che non funziona, e farlo con un certo stile. È come se tutti fossero attori in una grande commedia dell’assurdo, dove le regole del gioco cambiano continuamente e nessuno sa bene chi stia dirigendo lo spettacolo.
Il fascino dell’assurdo
Palermo non si può spiegare, si può solo vivere. E non è un caso che chi vi nasce, o chi vi trascorre un po’ di tempo, ne resti per sempre segnato. Come diceva Goethe: “L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima. Qui è la chiave di tutto”. La chiave di tutto, certo. Ma una chiave che Palermo custodisce gelosamente, lasciando che solo chi accetta il paradosso possa davvero trovare la porta giusta.
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