Scomparsa tra la notte del 4/5 agosto del 1962
“La gente non mi vede! Vede solo i suoi pensieri più reconditi e li sublima attraverso di me, presumendo che io ne sia l’incarnazione” (Marylin Monroe).
“Quel che ho dentro nessuno lo vede/ho pensieri bellissimi che pesano/come una lapide”. I pensieri pesano. Anche se sono belli. Struggente la comparazione con la lapide. Un inquieto esiste sulla scena della ribalta con una platea in attesa di schioccare un applauso o di far tacere le mani. Ma lei è lì. In quei versi che mascherano senza nulla nascondere e senza tramare nulla anche se le trame sono la ragnatela in sguardo di vento.
Lo spettacolo si dipana nello spazio dello specchio che non riflette soltanto il viso di Marylin, ma specchia i volti di tutte le donne che ha rappresentato avendo davanti, dietro e in ogni angolo la macchina da presa. Il cinema è la verità della illusione nella quale l’attore/l’attrice scopre l’orrore: “…perché a mia anima/vi fa orrore/come gli occhi delle rane/sull’orlo dei fossi?”.
L’ironia non traspare dunque. Semplicemente perché non c’è. Al suo posto insiste la malinconia: “… dipingere i desideri/ con i pensieri/che volano via/prima che muoia/e pensare/con l’inchiostro”. Pensare con l’inchiostro. Una metafora che raccoglie in sintesi la sintesi di un disperante trucco. Senza trucco si muore perché ci si abbandona al desiderio della rupe/destino.
Non ha mai amato essere considerata un oggetto. La donna e l’attrice sono il doppio in vetro di finestra in una America, allora come oggi, senza consolazione. Faccio delle rime di tanto in tanto, chiosa Marylin, ma “all’inferno, do benissimo/che non si vende”.